Cultura digitale: quando la vera innovazione significa ritrovare la nostra umanità

È ancora innovativo (e utile) oggi parlare di cultura digitale? Siamo sicuri che il concetto non ci sia venuto a noia, che non sia stato svuotato di spessore e significato, nel continuo ribadire la sua fondamentale importanza, nelle martellanti proposte di eventi, workshop, attività, ambiti nei quali poterlo applicare?

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Negli ultimi tempi, mi sono posta questa domanda molte volte, anche se è una sensazione che ho già da qualche anno, fin da quando ho realizzato l’enorme opportunità data dall’era digitale che, per il mio modo di percepirla, poteva essere paragonata a pieno titolo a quella grande spinta innovativa che, all’inizio del secolo scorso, ha visto lo sviluppo prepotente delle macchine a motore, e la loro incredibile diffusione fino a rivoluzionare completamente il nostro modo di pensare e vivere il mondo.

Ecco, il digitale è una rivoluzione assolutamente paragonabile a quella che allora cambiò per sempre l’esistenza delle persone ma, evidentemente, il fatto di viverla direttamente, la rende meno affascinante, meno mitologica per tante persone che, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, la subiscono più che cavalcarne la grande onda innovativa. Sembriamo sempre oscillare tra il timore ingiustificato, o l’eccessivo ottimismo, e questo vivere il digitale a giorni alterni coinvolge persone di ogni generazione; capita che nativi analogici (come la sottoscritta) abbiano fatto di internet il loro lavoro, trovando nuovi spunti e spazi creativi, mentre i millennials siano più scettici, meno entusiasti ed interessati.

Lo vivo spesso sulla mia pelle; io che da piccola guardavo Carosello e ho avuto il mio primo cellulare a 30 anni, mi trovo a confrontarmi spesso con ragazzi che sembrano non essere per niente affascinati dal mondo digitale e dalle sue applicazioni. Una sensazione che mi mette a disagio, al pari di quando, confrontandomi con persone della mia generazione, e raccontando del mio profondo coinvolgimento in questo mondo e dell’impegno nel cercare di diffondere la cultura digitale, mi ritrovo ad essere guardata con diffidenza, scetticismo e, se va bene, liquidata con un classico ‘non me ne parlare, non capisco niente di computer, e non mi interessano’.

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un articolo in cui ho trovato una spiegazione, praticamente definitiva, a queste mie riflessioni, “Le tre leggi fondamentali della Percezione del Progresso”, scritte da Douglas Adams nel 1999:

  1. Tutto quello che si trova nel mondo alla tua nascita è dato per scontato.
  2. Tutto quello che viene inventato tra la tua nascita e i tuoi trent’anni è incredibilmente eccitante e creativo e se hai fortuna puoi costruirci sopra la tua carriera.
  3. Tutto quello che viene inventato dopo i tuoi trent’anni è un’offesa all’ordine naturale delle cose, è l’inizio della fine della civiltà e solo dopo essere stato in circolazione per almeno dieci anni torna a essere abbastanza normale.

E se ci pensate, ci offrono qualche spunto per capire quello che accade praticamente tutti i giorni. Gli esempi che ribadiscono la sensatezza di queste tesi si sprecano, ci raggiungono dai media più tradizionali, come dai Social Network. Spaventano chi sta resistendo a questo cambiamento, e permettono a noi che abbiamo abbracciato la cultura digitale in prima persona, di parlarne e di provare a trovare soluzioni.

Se il cambiamento comporta assunzione di responsabilità e consapevolezza

Capiamo quindi che è ora di smetterla di trattare il digitale come qualcosa che non ci riguarda, o come la panacea di tutti i mali. Nell’era della comunicazione digitale e delle nuove forme di comunicazione e condivisione, ci scopriamo più umani di quanto ci aspetteremmo.

Realizziamo che il nostro atteggiamento nell’affrontare il cambiamento è naturale come la storia del mondo, segue le stesse logiche e non dobbiamo far altro che assecondarlo. E crescere in consapevolezza. Perché se il raggiungimento dei traguardi e dei benefici dati dall’innovazione tecnologica, nel corso di tutta la storia dell’umanità, ci hanno permesso di vivere meglio e più a lungo, di viaggiare e comunicare più velocemente, il rovescio della medaglia è stata la crescita esponenziale di responsabilità alla quale queste stesse innovazioni ci mettevano di fronte. E sappiamo bene di non essere riusciti, molto spesso, a tradurre questa responsabilità in un buon uso del progresso e dell’innovazione. Quindi, se non vogliamo essere etichettati come “legioni di imbecilli con il diritto di parola di un Nobel” (cit. Umberto Eco), dobbiamo essere consapevoli che, a fronte di tanta democraticità, non c’è l’anarchia e il caos, ma un’opportunità da coltivare, trasmettere, ampliare, ognuno con il suo personalissimo modo di essere umano.

Ed eccoci arrivati ad un punto dolente della rete

Al mondo ci sono circa 3 miliardi di persone che hanno accesso ad internet. Potenzialmente, tutte queste persone possono dire la loro, esprimersi, influenzare altre persone. Potremmo dire che, sotto questo aspetto, il web è effettivamente il canale più democratico mai esistito prima. Ma è veramente così? Abbiamo trasportato nella rete il nostro agire, senza tener conto delle dinamiche inedite che si sarebbero instaurate. Innanzitutto, dovremmo accettare il fatto che abbiamo aggiunto uno strato in più di deus ex machina digitali alla nostra personale storia di ogni giorno. In secondo luogo, le dinamiche sociali non sono state democratizzate per niente, non stiamo vivendo un percorso verso l’uguaglianza e l’abbattimento delle barriere. Anzi. Paradossalmente le barriere sembrano più resistenti, le posizioni più rigide, i gruppi più esclusivi.

La soluzione potrebbe essere fare un passo indietro

Viviamo nell’era della partecipazione e della collaborazione, nella quale le persone possono creare contenuti e condividerli in autonomia, senza necessariamente passare attraverso altri intermediari. La tecnologia lo permette e si trasforma in un fattore abilitante, i Social Media diventano espressivi, invadono le nostre vite, le dinamiche che regolano i rapporti con gli altri, amici, famiglia, lavoro. Sappiamo autovalutare il nostro rapporto con il cambiamento? Quanto questa globalizzazione, che rende tecnologicamente connessi gli individui, li rende anche cittadini globali? Siamo coscienti che, in questo contesto, abbiamo la responsabilità di essere ‘buoni’ cittadini digitali, e che questo implica trasmettere che, oggi più che mai, dobbiamo riscoprire valori concreti, quelli che fanno bene, quelli che fanno crescere? Troppe domande forse, ma fondamentali.

Potrebbero essere un punto di partenza per riscoprire l’autenticità del nostro essere umani. Ed ecco il punto: l’autenticità. Guardiamoci allo specchio. Chi siamo? Siamo un mix di contraddizioni. Siamo umani. Ed è più facile per le persone connettersi con un essere umano che con un robot, un post in un blog, un’immagine pubblicata su un Social, anche se bellissima ed empatica. La gente vuole sapere la vera storia. E paradossalmente si trova a dover fare i conti anche, e soprattutto, con l’ipocrisia. Quella vera, quella che ci spinge a dare di noi un’immagine diversa, sapendo che, filtrata, non emergerà la nostra vera natura di essere umani, ma nascondendo ingenuamente a noi stessi che il male rimane nostro, rimane dentro. Ecco perché è importante l’autenticità. Essere autentici è come fare un’assicurazione. Magari non serve ma, se serve, saremo contenti di averla stipulata. D’altro canto non abbiamo risposte assolute, siamo liberi di vivere il nostro mondo digitale, il nostro spazio condiviso, decidendo noi le regole, scegliendo la tendenza che maggiormente ci rispecchia, sia essa votata all’autenticità, come all’ipocrisia.

Qualche mese fa ho visto un film che parlava proprio di questo: ‘Perfetti sconosciuti’ fa emergere le debolezze e le paranoie dei protagonisti, e affronta il loro rapporto con il cambiamento radicale dato proprio dalla prepotente interferenza di nuovi mezzi di comunicazione nella nostra vita reale. Non ve ne farò la recensione, anche perché il film non dà nessuna soluzione, però fa riflettere e chiude con una consapevolezza che trovo perfetta anche per questo post (che allo stesso modo propone solo riflessioni): “siamo tutti frangibili, chi più, chi meno”.

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Maria Cristina Pizzato aiuta aziende e professionisti a migliorare la loro presenza online come consulente di web marketing e, in particolare, tramite la metodologia inbound marketing. Blogger dal 2010, ideatrice di un progetto innovativo in ambito handmade, ha avuto modo di approfondire sul campo tecniche e strategie di web marketing, community management, copywriting e posizionamento dei contenuti. Le dinamiche di web marketing e social media marketing sono diventate una passione, e Maria Cristina, che si definisce una creativa genuina, ho trovato in quest’ambito il suo spazio di espressione.

Il resto potrete leggerlo nel suo blog e sui vari Social in cui è costantemente presente.

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